Alla ricerca del “Perfetto Sensei” – Prima parte

Cominciamo dall’inizio

L’usanza quasi obbligatoria del nomikai (飲み会) è sempre presente in Giappone (anche se in misura minore rispetto al passato), ovverosia uscire dopo il lavoro con i colleghi e con il capo per mangiare, e soprattutto bere. In queste occasioni si allentano le strette regole vigenti sul posto di lavoro e, grazie all’alcol, anche le lingue si sciolgono. Molto spesso, grazie al clima più disteso, i colleghi di lavoro riescono ad esprimere critiche o suggerimenti sul funzionamento dell’ufficio che altrimenti non avrebbero mai avuto il coraggio e la possibilità di esprimere, senza subire conseguenze negative. Questo atteggiamento, infatti, è incoraggiato dai leader più esperti, per ottenere feedback che altrimenti non avrebbero potuto ottenere in un’organizzazione rigidamente controllata come quella giapponese. In queste occasioni anche i capi possono rilassarsi, e sempre grazie al bere abbondante, possono allentare le distanze sociali che caratterizzano il loro ruolo in ufficio. Non è affatto raro vedere quel capo, quello che sembrava non avere nemmeno l’ombra di emozioni, cantare a squarciagola canzoni romantiche con la cravatta legata intorno alla fronte e completamente ubriaco. Così come non è raro che venga accompagnato e sostenuto a braccia dai suoi subordinati alla fermata della metropolitana o farlo scivolare su un taxi a fine serata e spedirlo a casa. E, cosa ancora più normale, il giorno dopo nessuno dei presenti ne parlerà in modo tale che l’autorità e il ruolo del capo non ne risentano. Insomma, è come dire che “Quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas”1. E cosa c’entra questo con il sensei? Credimi, molto.

Partiamo dall’inizio: cosa significa la parola sensei (先生)? Letteralmente significa “colui che è venuto prima”. Quindi è una persona che ha iniziato il cammino prima degli altri e, a un certo punto, ha cominciato a insegnare quello che ha imparato strada facendo (generalmente, nel campo delle arti marziali è un uomo perché, a dirla tutta, il nostro mondo è ancora, e purtroppo, un campo di gioco quasi esclusivamente maschile, soprattutto nei ranghi più alti. Per fortuna le cose stanno cambiando e, a mio modesto parere, sta a noi affinché ciò avvenga il più in fretta possibile). Quindi possiamo facilmente riferirci al sensei come insegnante, e in Giappone gli insegnanti hanno proprio questo titolo, o a qualcuno che è più esperto e che ci trasmette le sue conoscenze. Solo che, quando entriamo nel dojo, la figura del sensei si eleva spesso a una dimensione “divina”.

Sia in Occidente che in Oriente la figura del maestro, ha un’innegabile importanza sociale, in quanto possiede abilità e conoscenze particolari. Ancora oggi il titolo di Maestro (con la ‘m’ maiuscola) è utilizzato come particolare forma di rispetto in diversi campi, oltre al significato religioso del termine. Purtroppo negli ultimi decenni abbiamo svuotato di importanza la figura dell’insegnante ma, non potendo sostituirla con qualcos’altro, stiamo ancora cercando qualcuno che ci guidi, e questo lascia campo libero a sedicenti maestri e guru di ogni tipo. E noi, da bravi orfanelli, siamo sempre più alla ricerca di una figura paterna che sia in grado di guidarci e soprattutto di dirci cosa fare in ogni aspetto della nostra vita, salvo arrabbiarci se non troviamo le risposte che vogliamo avere.

“Do ai miei giocatori quello di cui hanno bisogno, non quello che vogliono” Massimiliano Allegri

Quindi, quando l’insegnante, il guru o il sensei del momento non corrisponde alle nostre aspettative, cambiamo scuola, ashram o dojo sempre alla ricerca di rassicurazioni e formule miracolose, intrappolati in un ciclo senza fine. Cosa possiamo fare per spezzare questo circolo vizioso? Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo chiederci quali sono le nostre reali aspettative nei confronti del sensei e dei maestri in generale e, soprattutto, uscire dal mondo dei desideri.

Continua…


  1. È il famoso slogan per la campagna pubblicitaria della città di Las Vegas, Nevada.